Luigi Alfieri
seguimi su
  • Chi sono
  • Libri
    • Ebook
  • Film
  • Prefazioni
  • Racconti
  • Articoli
  • Fotoracconti
    • Fotopoesie

«Che lavór, sjor Gibartén!»

Immagine
(Da Gazzetta di Parma del 2 dicembre 1977)
La storia può essere scritta sui coriandoli. Guglielmo Capacchi  lo ha dimostrato con il suo ultimo libro dedicato al dialetto  parmigiano: «Che lavór, sjor Gibartén!», misto di ricerca scientifica, bella scrittura e humour. 
Come dire un candidato best  seller, secondo la miglior tradizione dell'autore. Capacchi, intellettuale polivalente, storico e docente di lingua e letteratura  ungherese all'università di Bologna dal 1956 al 1986, è pure un  campione di vendite: il suo «Castelli parmigiani» è arrivato alla  sesta edizione. «Cucina popolare parmigiana» alla terza, mentre  gli altri titoli a carattere locale sono di fatto esauriti. 
«Che lavór, sjor Gibartén!» (Palatina Editrice) è una raccolta di  modi di dire parmigiani (coloratissimi coriandoli), ognuno con  la sua storia. Conoscere le vicende di queste frasi secche e fulminanti significa anche conoscere le vicende di Parma, del contado e - nessuna esagerazione - dell'Italia intera. 
Andär bén cme  'l  maznè, per esempio, corrisponde all'espressione «va malissi mo». Ma co' saràl po, ste maznè?. Risponde Capacchi: il maznè è  il macinato, quello della tassa, la più impopolare della storia  d'Italia - ben peggio dell'Irap -. 
L'imposta entrò in vigore nel  gennaio del 1869, mettendo la fame città e campagne e pro vocando tumulti in tutto il Paese  - spiega l'autore - senza esclu dere Parma. Qui l'opposizione fu capeggiata dal deputato Basetti  (quello che ha dato il nome al Lungoparma). 
Coi modi di dire si  può fare anche un po' di sociologia. Perchè no? Andär ala bcarìa äd cunì äd Gatàtogh lo dimostra senza tema di smentite. 
Bisogna  sapere che i cunì äd Gatàtogh altro non sono che i gatti. Ci fu un  momento (primi del Novecento) in cui Parma era così povera che  abbandonavano i mangiatori - più o meno consapevoli - di felini.  
Lo spiega bene la penna del nostro linguista, intinta un po'  nell'inchiostro comico, un po' in quello amaro. 
Esistevano tre  calzolai Marùcch, Becch äd nador e Suppa in vén che «guadagnavano forse di più con la loro clandestina (ma non troppo)  beccheria di conigli di Gattatico, commerciandone carne e pelli,  piuttosto che facendo un onesto lavoro di ciabattini... I tre acchiappagatti in questione erano specialisti del «richiamo», un'imitazione della zgnavläda (tipo di miagolio) del gatto in amore,  ma a Marùcch i soci rimproveravano una voce male impostata; e  lui, «Coz'òja d andär, al Conservatori?». Inoltre Marùcch aveva la  sua pongón da canadéla), legata ad un'imbracatura con guinzaglietto, che con il suo squittio richiamava più gatti di una  zgnavläda, anche se ben imitata». 
L'aneddoto è buffo ma lascia spazi a considerazioni amare sullo  stato delle classi proletarie di inizio secolo: poche parole in  dialetto spiegano la povertà meglio di un dotto trattato scientifico. Il professor Capacchi rivela, poco più avanti, che non  mancarono le trattorie che servivano ai clienti tenera carne di  «ponga». 
E a questo punto ogni commento è superfluo. 
 I modi di dire parmigiani sono tanti: Che lavór, sjor Gibartén! ne  salva più di sessanta. Viene spontaneo chiedersi come mai questa proliferazione. Nel dialetto mancano diverse forme espressive tipiche dell'italiano: non c'è il passato remoto, non c'è il  verbo amare, ma, soprattutto, manca il superlativo assoluto degli  aggettivi, quello che finisce in issimo o issima. In piccola parte si  sopperisce con l'uso della parola bombén (alla Bassa dicono a  bòtta), in parte col ricorso a colorati modi di dire. 
Vecchissimo si  traduce così: Véc' cme 'l sgnór, véc cmè al tabàr dal djävol, véc  cme al can 'd San Roch, véc cme il bärchi 'd Peciòn: Pecchioni  (Peción) era il custode delle due vecchie barche che si noleg giavano nel laghetto del parco Ducale p'r un du (una monetina da  due soldi). 
Il corrispondente di Poverissimo è povrett cme San Vjolén. San  Violino non esiste nelle Vite dei Santi: è il nomignolo attribuito a  San Genesio di Roma - spiega Capacchi - che normalmente è  rappresentato con il violino in mano. L'immaginazione popolare  ha associato la sua iconografia alla miseria più nera. Essere  stupidissimo equivale a ésor al pu cojón 'dla bärca, dal nome -  pare - di un gioco ottocentesco. 
 I modi di dire hanno assolto una funzione importante: salvare  dall'oblio forme grammaticali e personaggi destinati alla scom parsa. Gli unici due passati remoti di cui si ha memoria li tro viamo in questo proverbio: La mizerja la gnì a caval e la andì a pé.  
Eh, la fórca 'd Bretta, (esclamazione usata per esprimere me raviglia) tramanda il ricordo del bandito Beretta che imper versava dalle parti di Soragna. Ésor grand e gros cme Grapalòn  riporta alla memoria il mitico strusjón (facchino esperto in  traslochi) che a metà secolo stazionava sotto i portici di via Affò.  Ésor nett cme la camiza äd Spagiär, oltre che significare essere  sporchissimo, serve a commemorare l'incisore-filosofo (maître à  penser del Mat Sicuri) di Vicolo San Vitale, nel cui studio d'il volti  a gh' säva un briz äd salvatogh. 
Le espressioni tipiche raccolte da Capacchi salvano decine di  questi personaggi; scorrere il libro è un po' come viaggiare dentro  una galleria di azzeccate caricature, con il vecchio-caro Stopaj  che guarda tutti dall'alto della copertina, una posizione d'onore  meritata a suon di battute fulminanti, di bicchieri tracannati e di  esibizioni canore. 
Prima di chiudere resta da spiegare il modo di dire che dà nome il  libro. Ma al lavór fatto dal sjor Gibartén, pur essendo assurto al  rango di leggenda metropolitana, è circondato da troppe luci  rosse per essere raccontato da un giornale: leggetelo sul libro.  
Non resta altro da fare.


---------------------------------------------------------------------------------------------
Guglielmo Capacchi (Parma, 12 giugno 1931 – Parma, 7 novembre 2005) è stato uno storico, linguista e scrittore italiano.
Fu professore di Ungherese presso l'Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Per i suoi meriti è stato insignito della croce di Cavaliere nell'Ordine del Merito sotto il titolo di San Lodovico e nell'Ordine Costantiniano di San Giorgio; fu insignito dell'Attestato di Civica Benemerenza dal Comune di Parma nell'anno 2000 per il ruolo fondamentale ricoperto nell'ambito degli studi locali.

Immagine
«Esser trito (o malconcio) come l'Albania»: ci siamo cascati  tutti, prima o poi; al sentir ripetere questo usatissimo modo di  dire si pensa subito alla cronica condizione di miseria dello  staterello balcanico, e si sbaglia. Perché ancora una volta entra in  gioco una varietà di tabacco, di quello prodotto proprio dalla  Ducale Manifattura Tabacchi di Parma, che aveva sede alla  Certosa di Vicopò. Il Peschieri, autore del primo «Vocabolario  parmigiano-italiano» (1836, seconda edizione) consacra una vo ce al nostro «Albania» da cui risulta che di questo tipo di tabacco  la nostra Manifattura produceva tre qualità: la «meläda» («mie lata»), la «sforsäda» («sforzata»), la «Santa Giustén'na» («San ta Giustina»), che variavavano quanto a concia e aroma, ma  avevano in comune il fatto d'appartenere tutte alla categoria del  «tranciato fine», e di essere quindi «tridädi fèn'ni». 
Per estensione del significato, «ab immemorabili», nel dialetto  parmigiano «trid», oltre che «tritato, trinciato», valeva soprat tutto per «scalcinato, lacero, male in arnese, povero in canna» e  da qui aveva preso le mosse il sostantitvo «tridon» (più raramente «tridlon»), nel senso di «straccione, pezzente, mise rabile»). 

Immagine
Accanto al trinciato fine «Albania», altri sostantivi  fanno a gara per esprimere lo stesso concetto, nella solita for mula comparativa tipico del dialetto: «trid cme 'l locch («trito  come la pula»), «trid cme la bulla» («come la segatura»), «trid  cme al magnär di pit» (come il becchime per i tacchini»), «trid  cme un stras da moletta («a brandelli come un cencio da ar rotino»), quello su cui l'arrotino ambulante provava il filo delle  forbici), «trid cme San Vjolén, ch'al sonäva la messa con un  copp», (povero come San Violino, che suonava la messa con un  coppo), «trid cme 'na séza äd zgambàs» («come una siepe di  sanali»), «trid cme la cärna a investiduri» («come la carne per le  investiture», una sorta di soppressata parmigiana notissima  ovunque, verso il Cinque-Seicento). Un uso molto moderno di  «trid» l'ho udito dal vivo, da un tale che descriveva un incidente  automobilistico e definiva le due macchine dopo lo scontro «tridi  cme do cärti äd cavàl pisst» (maciullate come due cartocci di  pesto di cavallo»), con un'immagine iperbolica - e quindi molto  parmigiana - ma veramente espressiva. 
Immagine
Fornito da
✕