Luigi Alfieri
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Io, la cipolla 
storia d'amore di magia e di cucina 

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LA CIPOLLA IN MESOPOTAMIA

Quando l'uomo girava seminudo con la clava sulle spalle, la cipolla esisteva solo in una piccola fascia, relativamente ristretta, della terra. Quella che oggi corrisponde al Nord Ovest dell'India, al Pakistan e all'Afganistan. Era la notte dei tempi. I nostri antenati, brutti e pelosi, vivevano come bestie, si cibavano di animali, erbe e frutti selvatici. Non si sa bene se tra questi ci fosse la cipolla, ma è facile supporlo.
Una cosa è certa: allorché nella zona compresa tra il Tigri e l'Eufrate, nacque la grande civiltà mesopotamica, le piante del genere allium erano già assurte al rango di ortaggi e venivano coltivate e mangiate in abbondanza.
Con buona pace degli aliti dei guerrieri Sumeri, Babilonesi, Hittiti e Assiri, che si succedettero nel dominio di queste terre.
Forse il mitico re Hammurabi, nel terzo millenio avanti Cristo, compose il primo codice penale e civile della storia tra un banchetto e l'altro a base di cipolle. Gli sfarzosi giardini pensili dell'opulenta Babilonia ne erano pieni. Negli orti che i mesopotamici costruivano sui tetti, il prezioso bulbo si sviluppava rigoglioso. Lo stesso Nabuccodonosor, reso immortale dalle sue gesta di guerriero, ma più ancora dalle sublimi arie di Giuseppe Verdi (chi non conosce il "Va pensiero"?), deve essere stato un bel mangiatore di porri, aglio e scalogno.
I popoli mesopotamici erano fatti di valorosi combattenti, fabbri inimitabili (furono i primi in assoluto a lavorare i metalli), grandi agricoltori, ma, soprattutto, instancabili mercanti. Nella loro ansia di arricchirsi - nessuna meraviglia: esisteva anche qualche migliaio di anni fa - diedero vita a intensi commerci coi paesi vicini e con l'altra grande potenza del tempo: l'Egitto. Si deve a loro, intraprendenti export manager del Tigri e dell'Eufrate,  se la cipolla ebbe la possibilità di proseguire la lunga marcia da Est ad Ovest cominciata nelle aride montagne afgane, raggiungendo le coste del Mediterraneo e "infestando" le rive del Nilo.

LA CIPOLLA ALL'OMBRA DELLE PIRAMIDI

Ammesso che nella storia esista un popolo che abbia saputo onorare l'umile bulbo, dargli rilievo e dignità, farne oggetto di smodate - forse anche eccessive, diceva il poeta latino Giovenale - attenzioni, questo è l'egiziano.
Sbarcato nel paese delle piramidi nel quarto millennio avanti Cristo, il saporito ortaggio, per secoli, ha conosciuto momenti di vera gloria. Faraoni, scribi e sacerdoti (questi ultimi di nascosto perché la legge glielo proibiva) ne mangiavano in gran quantità. Del resto, il limo che il fiume Nilo lasciava sugli orti ad ogni inondazione faceva crescere i bulbi in modo rigoglioso e, alla fine, ce n'era per tutti.
Oggi a noi può sembrare buffo, ma gli antichi egizi consideravano la cipolla una vera e propria "divinità". Non ci credete? Eppure lo scrisse con profusione di dettagli Plinio il Vecchio (23/79 d.C), nella sua Naturalis Historia, prima di finire morto sotto le ceneri del Vesuvio. E lo conferma il grande Plutarco (46/120 d.C.), un Montanelli formato greco. Quest'ultimo, cerca anche di dare una spiegazione al fenomeno. Egli stabilisce un rapporto tra rango religioso dell'ortaggio, da una parte, semina e crescita del bulbo che avvengono sempre in fase calante della luna secondo quella che il cronista di Cheronea  definisce "contraria natura all'altr'erbe", dall'altra.
Molto più semplicemente: gli antichi egizi erano un popolo pratico e realista. Attribuivano il rango di "divinità" a ciò che portava beneficio. Il sole, perché faceva germogliare i frutti, il Nilo, perché portava il limo. Quindi la cipolla, perché sfamava la gente.
Fatto sta che il poeta latino Giovenale, sempre pesantuccio e tagliente nelle sue considerazioni, se la ride dei poveri "africani" nei suoi celebri versi:
"Empio violare l'aglio e la cipolla
e spezzarla coi denti. O santa gente,
cui così fatti Dei nascon negli orti!"
Giovenale parla bene, ma se lo avessero potuto sentire certi faraoni peperini come Ramsete II o Amenophis III, gente nervosetta che non andava tanto per il sottile, si sarebbe ritrovato in bocca a un coccodrillo. Per sua fortuna, lui scriveva quando loro erano morti da qualche decina di secoli.
Per gli Egizi la cipolla, non era solo un cibo prelibato ed una dea, ma aveva anche la funzione di "macchina della verità". Chiunque volesse farsi credere da un interlocutore parlava tenendo in mano un bel bulbo sacro. Era impossibile - così credevano tutti - mentire in simili condizioni. Un po' come giurare imponendo le mani sulla Bibbia nel processo americano. Chissà quanti mascalzoni se ne sono approfittati.
Sugli egiziani c'è un mito da sfatare: sin dal tempo delle scuole elementari, causa maestre in buona fede e sussidiari scalcinati, ci tiriamo dietro la convinzione che i faraoni abbiano fatto costruire le piramidi da miseri schiavi frustati a sangue e maltrattati da severi sorveglianti. Recenti scoperte archeologiche ci hanno mostrato come in realtà potesse trattarsi di operai liberi e ben pagati, generalmente in natura. Una lapide della piramide eretta per custodire le spoglie mortali del grande faraone Cheope (la si vede in tutte le cartoline che i turisti scrivono dall'Egitto accanto a quella di Chefren e Micerino) riferisce che vennero spesi ben 1600 talenti di argento per acquistare cipolle, agli e ravanelli da consegnare agli operai impiegati nella mastodontica costruzione. Del resto, nessuna meraviglia: ancora oggi nelle mense aziendali abbondano i piatti a base di gigliacee.

LA CIPOLLA MEGLIO DELLA MANNA

Il bulbo prelibato, non appassionava solo la popolazione  nata in riva al Nilo, ma anche i suoi ospiti più o meni volontari. Gli ebrei, per esempio, costretti a una lunga cattività presso i faraoni, divennero dei veri fans della cucina locale.
Nella Bibbia, libro dei Numeri,  si legge che i figli di Israele, durante la grande marcia nel deserto intrapresa per raggiungere la terra promessa, quella che oggi vorrebbe Arafat, non potendone più di mangiare la manna piovuta dal cielo -  da un punto di vista culinario pare non fosse poi un gran ché - iniziarono a lamentarsi reclamando: "chi ci darà da mangiare carne? Ci ricordiamo soltanto dei pesci che in Egitto mangiavamo per pochi soldi, dei cocomeri, dei poponi, dei porri, degli agli, delle cipolle....." mangiati lungo il Nilo.
Insomma piacevano assai questi ortaggi "poveri". Tanto che gli egizi, dopo la morte, si facevano sistemare nei loro sarcofaghi abbondanti quantità di bulbi per cibarsene anche nell'aldilà.

LA CIPOLLA SIGNORA DELL'ELLADE

Pur meno fanatici, anche i Greci furono convinti estimatori della cipolla. Da Pisistrato a Euripide, da Socrate a Pericle, da Temistocle a Fidia, ne mangiarono un po' tutti. Dicono che Demostene (384/327 a.C.) dopo una bella mangiata di cipolle parlasse più chiaro e spedito.  Ne divorò tante, se è vero che, a forza di Filippiche, divenne uno dei principali oratori della storia.
Omero per primo, nell'Iliade, parla di "fresca cipolla". E noi ci immaginiamo subito gli eroi cantati dal sommo poeta, Achille, gli Aiaci, Diomede, Patroclo, Agamennone e Ulisse, sotto le mura di Troia, intenti a divorare bulbi crudi, pronti a distruggere i difensori di Ilio con le armi puntute e i loro fiati mefitici.
Gli antichi greci chiamavano la cipolla kròmmuon. Dopo averne mangiata in gran copia, si dedicavano senza fallo ad un'attività che noi moderni bisimiamo: l'emissione di fragorosi krommucsuremìa, che il vocabolario di greco ci informa essere i "rutti tipici di chi ha mangiato cipolle con aceto". Non ci dobbiamo fare meraviglia che Spartani ed ateniesi gradissero tanto questa attività - fare krommucsuremìa - e la svolgessero in pubblico: avevano un altro concetto dell'educazione ed altri gusti. Monsignor Della Casa doveva ancora nascere.
Al prelibato ortaggio erano legati pure alcuni modi di dire tipici del popolo. Kròmmua eistiein, per esempio, significava mangiar  cipolle, ma anche piangere. Tà kròmmua era la parte di mercato riservata alla vendita dei richiestissimi bulbi.
Non tutti i greci nutrivano lo stesso entusiasmo per il nostro ortaggio. Ippocrate di Coo (460/377 a.C.), il padre di tutti i medici, scrive nella sua opera "Il Regime", libro secondo "...La cipolla fa bene alla vista, ma è dannosa al corpo perché è calda, riscalda assai e non è lassativa; non fornisce alcun nutrimento al corpo, ne gli è di alcun giovamento; inoltre, riscaldandolo, lo asciuga del suo succo".
Sempre per restare nel mondo ellenico, il filosofo e naturalista Teofrasto (370/288 a.C.), discepolo preferito di Aristotele,  in un capitolo della "Storia delle piante" ricorda alcune varietà di cipolla diffuse in quel tempo: sardia, gnuidia, samotracia, ascalonia, facendone derivare i nomi dai luoghi di provenienza. Secondo lo studioso le cipolle più gradite erano la setania, piccola e dolce, e la fissile, che si divideva a spicchi.

GLI ALTI E BASSI DELLA CIPOLLA A ROMA

Ben più complesso e articolato il rapporto con la cipolla degli antichi romani. All'inizio della loro storia, quando erano un popolo di umili pastori, la gradivano molto. Col tempo, divenuti, grazie alla loro potenza militare e alla loro spinta imperialista, ricchi sfondati oltre che padroni del mondo, cominciarono ad arricciare il naso. In epoca imperiale, con lo snobismo del parvenu, ripudiarono del tutto il misero bulbo insieme all'aglio al porro e allo scalogno. Il grande poeta Orazio, dandy di prima grandezza nonché amico di Augusto e Mecenate, in una sua celebre ode lancia contro questi poveri ortaggi un'invettiva senza pari.
Anche i grandi della letteratura "tecnico agricola" latina, studiosi professionali e competenti,  Marco Porcio Catone, detto il Censore (242/137 a.C.), Marco Terenzio Varrone (116/27 a.C.) Lucio Giunio Modesto Columella (primo secolo dopo Cristo) danno poco spazio alla cipolla, tutti presi dallo studio di asparago, cavolo e lenticchie: quanta puzza sotto il naso!
Per fortuna la loro indifferenza è bilanciata dai precisi interventi di Plinio il Vecchio, un avvocato difensore di grande prestigio che, forse, le sparava un po' grosse. "Si dice - scrive il buon uomo - che le cipolle coltivate curano l'offuscamento della vista con il loro stesso odore e con le lacrime che provocano.....Si dice che abbiano effetto ipnotico, e che se vengono masticate con pane, guariscono ulcerazioni alla bocca, i morsi dei cani, ed anche le escoriazioni. Si facevano frizioni con cipolla battuta nei casi di alopecia, e di eruzioni. Cipolle cotte venivano date da mangiare a chi soffrisse di dissenteria e lombaggine.... Riguardo agli altri impieghi regna tra i medici una sorprendente disparità di opinioni: i più moderni affermano che la cipolla è dannosa per l'epigastri e per la digestione e che provoca gonfiore e sete. Secondo la scuola di Asclepiade con questo cibo si ottiene anche un colorito sano, e si conserva una buona condizione fisica se si mangia ogni giorno a digiuno: la cipolla infatti farebbe bene allo stomaco stimolandone l'attività e libererebbe l'intestino; usata in supposta farebbe aprire le emorroidi. Il succo delle cipolle unito a quello del finocchio combatte con sorprendente efficacia le cataratte allo stato iniziale, così come agisce contro l'angina, se preso con succo di ruta e miele. Inoltre ha effetto stimolante su chi è affetto da letargia...". Insomma, Plinio il Vecchio ci credeva in questo ortaggio così bistrattato dai colleghi.


NEL MEDIOEVO IL BLACK OUT DELLA CIPOLLA

Caduto miseramente l'Impero romano d'Occidente, con l'affermarsi dei barbari, nella letteratura e nella storia scritta si perde ogni traccia della cipolla. Per secoli non una solo riga, neppure una testimonianza. Non sapremo mai cosa pensassero di questo bulbo glorioso Attila e Alarico, Paolo Diacono e San Benedetto, Carlo Magno e Marozia. Non sapremo se i longobardi, che del resto mangiavano soprattutto carne, avessero qualche idea particolare sulla nostra gigliacea. 
Bisogna aspettare il XII secolo per ritrovare tracce dell'odoroso ortaggio nella cultura occidentale. La ricomparsa è merito di quel bravo scrittore di temi rurali che fu Piero de' Crescenzi. Lo studioso italiano, riprendendo temi già trattati dall'arabo Avicenna, fa una rivisitazione in chiave erotica della scienza bulbacea. Le cipolle "se si prendono crude e temperatamente... accrescono l'appetito, e provocano la lussuria per la lor caldezza ed umidità".  In sintesi: una bomba sessuale. Ancor meglio della mandragola consigliata da un certo personaggio inventato da Machiavelli, o della moderna polvere di corna di rinoceronte. Due altri presunti stimolatori della potenza sessuale.
Lo studioso analizza poi l'acutezza della cipolla e noi pensiamo che con tale sostantivo intendesse l'intensità del sapore. Il bulbo "più lungo è più acuto" dice. E poi "la rossa è più acuta che la bianca e la secca più che l'umida e la cruda è più acuta che la cotta ed ha la virtù di trarre il sangue dalle parti di fuori per la qual cosa fa rossa la cotenna". Infine ci dice l'autore le cipolle "riscaldano e tagliano i grossi umori e viscosi e aprono le bocche delle vene e provocano i mestrui e l'orina e accrescono l'appetito".
Tutto questo va bene, solo che, in pieno Medioevo, la gigliacea si era guadagnata un'immeritata fama: quella di istupidire la gente. Lo stesso De Crescenzi dice: "Nuocciono all'intelletto". Ma c'è un tipo, un viaggiatore arabo molto conosciuto dalle sue parti (una specie di Marco Polo alla rovescia), che pare proprio esagerare. Nel 977 al ritorno da un suo tour in Sicilia, questo tale, chiamato Ibn Hawqal, intinto l'inchiostro nell'arsenico scrisse degli abitanti dell'isola a proposito degli agli e delle cipolle da essi ingeriti in gran quantità:
"....Ecco ciò che ha offuscato la loro immaginativa; offesi i cervelli; perturbati i sensi, alterate le intelligenze; assopiti gli spiriti; annebbiati i volti; stemprata la costituzione; si fattamente che a loro non avviene mai di vedere direttamente le cose". Non è carino verso i siciliani, proprio no.
La gigliacea era apprezzata dai Normanni, i grandi navigatori del Nord, che dalla Scandinavia e dalla Danimarca partirono alla conquista, in parte riuscita, dell'Europa costiera. I biondoni venuti dal freddo non si limitavano a mangiarla in grande quantità, ma un po' come gli egizi, le attribuivano poteri magici. Per esempio, appendevano un bulbo al collo dei bambini per preservarli da contagi e convulsioni e non prendevano il mare senza avere imbarcato almeno una cipolla.
Alfonso re di Castiglia, amava molto meno il nostro ortaggio. Quando creò l'ordine della Banda (così detto per via di una fascia che pendeva dalla spalla degli appartenenti) aveva stabilito tra le regole statutarie  - per coloro che ne fossero insigniti - di non consumare cipolle ed agli, pena l'espulsione.

LA CIPOLLA NEL RINASCIMENTO

Col rinascimento, sbocciano una gran quantità di studi umanistici e scientifici. Le attività di lavoro e studio diventano oggetto di diffusi trattati e, al tempo stesso, si riscoprono in forma più vissuta i piaceri della vita. E' in questo clima che il nobile bresciano Agostino Gallo pubblica, verso la metà del '500, un'opera destina a divenire nei secoli una pietra miliare: "Vinti giornate dell'agricoltura e dei piaceri in villa". Ampio spazio è dedicato ai cosiddetti "cibi rusticani", scalogno, porro aglio e cipolla, riservati alla alimentazione contadina. Delle "povere" gigliacee vi si dice "sempre furono grate a i contadini onde, per mantenersi sottoterra tutto l'anno, le mangiano crude e cotte d'ogni tempo".
Allora, Gonzaga, Medici, Farnese, Estensi, Colonna, chiusi nel lusso delle loro regge non assaporarono il controverso piacere dato al palato dai nostri bulbi saporiti e ricchi di storia? Tranquilli: ci dice Il Gallo. I nobili mangiano cipolle "dopo settembre cotte nell'insalata, nelle frittate e ne i guazzetti". I signori, a differenza dei poveri, "le conservano nell'aceto tutto l'anno". Lo studioso dell'agricoltura e del tempo libero non presta grande attenzione agli aspetti terapeutici della gigliacea. Ne indica solo la capacità di lenire gli effetti delle scottature. "Leva l'ardor e ogni dolor".
Lo studio più diffuso sulla cipolla, lo compie cento anni dopo, il bolognese Vincenzo Tanara, autore di un voluminoso testo fondamentale nella storia dell'agricoltura: "Economia del cittadino in villa". Lo scrittore fornisce abbondanti cenni storici, agronomici, e medico-curativi.  Infine, lancia una curiosa insinuazione: i popoli antichi non mangiavano le vere cipolle, ma i bulbi da fiore. Presumibilmente di tulipano. Il suo dubbio, però, non è suffragato da prove e neppure da indizi.
Per Tanara il sapore è influenzato dal terreno. Quest'ultimo deve essere "dolce, facile, leggero e rosso". Sono importanti anche le razze: "Ve ne sono delle buone e delle triste". Ama le cipolle di Gaeta, "ma più le beneventane, bellissime le romagnole".
Nel diciassettesimo secolo c'era anche chi riteneva, non è la prima volta e non sarà neppure l'ultima, che il nostro ortaggio avesse potenti effetti di carattere sessuale.
Pisanelli, nel suo trattato sulla natura dei cibi e del bere, dato alle stampe nel 1611 a Venezia, scrive "... (La cipolla) aiuta il coito, genera sperma, e latte, fa venire appetito, è contra il nocumento che si acquista per la mutatione delle acque...Cruda mangiata in molta quantità fa dolere la testa, infiamma il sangue, nuoce all'intelletto.." "..Il troppo usarla induce sonno profondo...".
Per le gigliacee l'era moderna inizia nell'Ottocento, con la comparsa de "L'ortolano dirozzato" di Filippo Re. Archiviata la rivoluzione francese si svolge la rivoluzione della cipolla e con questo libro inizia la moderna orticoltura. Siamo già all'oggi.

(continua in libreria...)
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