Luigi Alfieri
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Lampi d'Italia all'Arsenale

8/6/2011

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(Da Gazzetta di Parma dell' 8 giugno 2011)

Forse è una domenica di festa. La famiglia è tutta riunita nella grande cucina. E’ una famiglia numerosa, ci sono i nonni, i bambini e, sembra, qualche amico. La padrona di casa sta sventrando una gallinella destinata a finire nel brodo. 
All’improvviso scoppia qualcosa. Un cuore? Un sentimento? Tutte le linee si confondono. Le prospettive si rompono. Il sopra diventa sotto, l’alto diventa basso. La forza di gravità scompare: il gatto di casa vola nell’aria come un uccello, i capelli delle signore si dirigono verso il cielo. Tutti i sentimenti delle persone, anche i più biechi, vengono messi a nudo.
Si possono vedere e toccare. La cucina diventa il mondo, la domenica diventa il tempo infinito. In un attimo il quadro si trasforma nella metafora dell’umanità dolente. La paura del futuro, la coscienza della crisi morale ed economica, il senso di instabilità, la volgarità imperante nei potenti della terra come nei piccoli uomini si fanno palpabili nel quadro del pittore Enrico Robusti in mostra al Padiglione Italia della cinquantaquattresima Biennale di Venezia.

Il suo «Tragico destino di una gallinella ripiena» è la prima tela di un artista parmigiano esposta all’Arsenale dopo ventisei anni di assenza. Un gioiello che ha rischiato di passare inosservato, perché quest’anno il Padiglione Italia è troppo affollato. Il suo curatore, Vittorio Sgarbi, ha preso alla lettera le parole di Beat Wyss e Joerg Scheller, che in un saggio introduttivo al catalogo della mostra la definiscono il «Bazar di Venezia». Più di duecento pittori per rappresentare un Paese sono troppi. Specialmente se lo spazio a disposizione è quello che in passato ospitava al massimo una decina di artisti (anche il New York Times stronca l'allestimento). Dentro all’area Italia si ha spesso l’idea di essere in un suk o nel mezzo di una televendita. Con opere straordinarie mescolate ad altre meno strutturate, alcune inadeguate, e sepolte in una catasta di stimoli diversi e di colori, materiali e mezzi cangianti: oli, stampate di computer, pupazzi, specchi, plastica, cemento, matite. Sgarbi è partito da un’idea affascinante: fare scegliere le cose da esporre a un nutrito gruppo di intellettuali italiani estranei alla critica dell’arte. Alla fine ne è uscito un insieme deludente e disomogeneo, dove solo il grande specialista riesce ad orientarsi. Per fortuna il catalogo generale della Biennale funziona un po' da bussola e con grande abilità sceglie tra i tanti italiani i dodici che meglio indicano il cammino dell’arte della penisola. Tra questi c'è Enrico Robusti. C'è Cesare Inzerillo, con le sue realizzazioni in legno e cemento, c'è Oliviero Toscani, con la celebre fotografia «Anorexia». Nessuna critica e solo lodi, invece, per la mostra centrale della Biennale, «Illuminazioni», curata dalla svizzera Bice Curiger, direttrice scientifica della Kunsthaus di Zurigo e responsabile di prestigiose riveste d’arte. La sua idea è che la Biennale sia la più importante rassegna del mondo ed abbia il compito di illuminare tutte le altre, così come la  pittura, la scultura, le installazioni, la fotografia devono illuminare la società. L’operazione è riuscita. Ha sistemato negli spazi favolosi dell’Arsenale e dei Giardini le opere di 83 grandi personalità che davvero riescono a dare l’idea dello stato dell’arte mondiale. Tra essi, colpo di scena, ha inserito anche tre capolavori di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, un grande della pittura veneziana del Cinquecento, un faro le cui luci sono ancora ad illuminarci attraverso le nebbie dei secoli. Le sue tele stanno al Padiglione Centrale dei Giardini a ricordare che l’arte è emozione e l’emozione non ha tempo. Ma il corpo maggiore della mostra curata dalla Curiger sta in quel contenitore stupendo che è l’Arsenale di Venezia, un tempo cuore pulsante dell’impero commerciale della Serenissima. Dove i maestri d’ascia costruivano le galee dominatrici del Mediterraneo, tra il gigantismo delle colonne e il rossore dei mattoni antichi, ora lampeggiano le opere di alcuni dei più creativi artisti contemporanei. Con qualche concessione a pittori di un passato recente. E’ all’interno di Illuminazioni che emerge quel quadro nitido e definito dell’arte italiana che ci si attendeva dal Padiglione nazionale: Bice Curiger, senza pregiudizi nazionalistici, ha dato spazio a un manipolo di nostri «campioni». Lo guida Maurizio Cattelan, per una volta alieno da provocazioni, e ne fanno parte Giorgio Andreotta Calò, Meris Angioletti, Elisabetta Benassi, Luca Francesconi, Marinella Senatore.
Straordinaria la Partecipazione di Monica Bonvicini: le sue opere riflettenti, brandelli di più grandi realizzazioni architettoniche, rigorose e piene di luce, trovano nella fabbrica delle navi veneziana lo spazio ideale. I rossi e gli ocra dell’Arsenale si insinuano negli specchi dell’artista, li riempiono del loro calore, della loro polvere di storia. Le gigantesche spighe di Giulia Piscitelli si allacciano alle pareti immense del cantiere come l’edera ai tronchi. L’omaggio all’arte italiana di Bice Curiger non si ferma qui. Con un gusto straordinario ripesca due grandi artisti scomparsi alla fine del secolo scorso Gianni Colombo e Luigi Ghirri. Il primo, milanese, è stato uno dei pilastri dell’arte cinetica, che ha saputo anticipare di alcuni decenni l’importanza della produzione ripetitiva e di massa, il secondo, reggiano di Scandiano, spesso attivo a Parma, è un  maestro della fotografia. Perché Ghirri? Lo spiega molto bene un delle straordinarie schede che accompagnano il catalogo della Biennale: «Non stupisce che in un’epoca dominata dal ritocco digitale si assista a un forte interesse all’opera dell’artista. La sua paletta delicata, l’attenzione particolare alla luce e all’inquadratura con la quale fonde vari piani di profondità, avvicinano la fotografia di Ghirri materialmente e formalmente all’universo della pittura». E se un messaggio arriva da questa Biennale è che tra tanta sperimentazione, tra tanto impiego di mezzi innovativi e di tecnologia avanzata, piano piano, tornano a fare capolino la tela, l’olio e il pennello. Come ai tempi del Tintoretto. 

(Da Gazzetta di Parma dell' 8 giugno 2011)
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